Lo squartatore di via Maria Ausiliatrice


 

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image-1706 - Nel 1998 nascosto nelle cantine di via Maria Ausiliatrice 50 si rivenne il corpo di Vito Michele Milani, 39 anni. Era sezionato in più parti e semicarbonizzato. 

Per accedervi bisognava aprire una porta, trovata chiusa a chiave da quell’inquilina che il 25 gennaio 1998 nemmeno riconobbe lo scempio, anzi ritenne di aver intravisto delle insolite «pelli di animali» ammucchiate. 

Chi lo aveva trascinato nella cantina degli orrori per strangolarlo e poi depezzare il corpo? Il macabro omicidio era un enigma avvolto dal mistero assoluto. La mutilazione del corpo di Vito Michele spegne una vita da fragile fantasma, un’ombra difficile da tracciare, consumata nel sottoscala della prostituzione maschile. Fin dai 14 anni Vito Michele aveva iniziato a scappare da casa, a risalire fino al nord, «traendo, verosimilmente, il sostentamento – sottolineavano gli inquirenti - con l'offerta di prestazioni sessuali, sia ad uomini che a donne». I familiari più volte erano andati a riprenderlo a Milano, ma il ragazzo poi puntualmente fuggiva di nuovo.

A fine 1993 era però tornato in Puglia, lì rimase fino al 5 dicembre 1997 quando senza alcun preavviso, si allontanò di nuovo, promettendo che avrebbe fatto rientro entro pochi giorni. L’ennesima menzogna di una vita celata. Nel borsone, Vito Michele infilò qualche indumento e 150mila vecchie lire, l’ultimo sussidio mensile ricevuto come soggetto affetto da disturbi psichici, prima di sparire per l’ultima volta e venir ritrovato mesi dopo nello scantinato della scuoiamento. Una scoperta che lasciò la città non solo scossa dalla brutalità delle sevizie ma incredula che la malvagità umana possa arrivare a tanto. I giornali strillavano titoli choc sul «delitto del depezzato» ma gli inquirenti faticavano a raccogliere un primo indizio. Il corpo ritrovato prono con la lingua tra i denti, scuoiato, un braccio disarticolato, il tronco mutilato delle gambe, lo stomaco svuotato e riempito di stracci. C’era da partire da due soli punti: gli inquilini del palazzo e la prostituzione esercitata dalla vittima. La particolarità di aver trovato i genitali e il pene del Milani sezionati e riposti in un sacchetto di plastica, a differenza di tutti gli altri resti del corpo disseminati per metri in modo casuale, induceva a ritenere che l’assassino, il torturatore avesse agito spinto da un movente di matrice sessuale. E la conferma pareva arrivare dai polsi trovati legati dietro la schiena e da un tubicino per l’aerosolterapia, presente nel sacchetto e che poteva esser servito per un gioco erotico magari finito male, segnato da supplizi inferti alla vittima. A Torino Vito Michele pareva aver vissuto da fantasma. Nessuno sembrava essersi accorto della sua esistenza e chi l’aveva fatto, evidentemente, oggi scongiurava di non essere accostato alla vittima per non solleticare quei mormorii, quel sordido chiacchiericcio che alimenta la gogna. Non lo conoscevano i negozianti di quartiere, i sacerdoti del vicino santuario, non aveva mai ricevuto assistenza medica dal 118 o negli ospedali. 

image-1La foto di Milani veniva mostrata a transessuali, travestiti e omosessuali della città: dai cinema a luci rosse alle saune, dai club alle palestre. Niente, Vito Michele si confermava un’ombra, anche nel giro della prostituzione da strada. In due mesi vennero contattati di notte 59 soggetti ma nessuno di loro fu utile. L’unico sterile segno di vita era costituito da tre multe ricevute perché sprovvisto di biglietto su treni a lunga percorrenza. Carta straccia: risalivano al lontano 1992. Allora, come in un dannato gioco dell’oca, si ripartiva sempre dalla scena del crimine. Si sapeva che il corpo era stato portato e abbandonato lì tra le 21.45 del 24 gennaio e le 3.30 del 25 gennaio del 1998. Il medico legale Roberto Testi, incaricato dal tribunale, sottolineò che la rimozione degli organi era avvenuta in modo grossolano, «con le tecniche che usano i macellai, manovre che dimostravano una certa manualità ma non conoscenze anatomiche». Il rituale dell’assassino si era sviluppato in tempi diversi: aveva ucciso poi aveva sezionato il corpo, soffermandosi prima sui genitali e solo in un secondo momento, sugli altri organi; quindi, aveva tentato di bruciare i resti. E qui arrivò la prima indicazione importante: con ogni probabilità l’omicidio si era consumato proprio in quelle cantine. Un dettaglio chiave, che imponeva di controllare tutti gli inquilini. Nel palazzo abitavano diverse persone dedite al più vecchio mestiere del mondo, tra prostitute albanesi e travestiti. Ed emergono particolari. Tra gli inquilini non era sfuggito il passaggio di giovani ragazzi a casa di un sarto ormai in pensione, tale Giuseppe Gillone, indicato dai vicini come omosessuale. «Mentre era nelle scale – racconta uno di loro - aveva notato Gillone parlare con un uomo dai capelli brizzolati, il quale gli disse: “Non ti preoccupare, te lo porto io un ragazzo. Vedrai che questo ci sta”». «In più occasioni, quantomeno una volta a settimana – chiosava un altro - Gillone riceveva la visita di due uomini, che si trattenevano abitualmente in casa circa un'ora…Il giovane dell'apparente età di 25 anni e di corporatura esile aveva un evidente aspetto e comportamento da omosessuale». Questi dettagli fanno crescere l’attenzione sull’ex sarto: «Il giorno del rinvenimento del cadavere, Gillone ai militari che lo hanno escusso è apparso gravemente malato e bisognevole di continue cure, come dimostravano i numerosi medicinali, le diverse apparecchiature mediche presenti nell’alloggio e le dichiarazioni dei medici curanti». Gillone offre un alibi granitico: «Da qualche giorno non esco di casa e ieri sera è venuta a trovarmi la dottoressa che mi segue nelle cure prescritte dall’ospedale. Nella circostanza lei mi ha applicato un’apparecchiatura che serve a controllare e registrare il funzionamento del cuore. Quest’ultima è stata da lei disinserita intorno alle tre di questa mattina». Ma chi è questo ex sarto? Da una parte nega con forza la propria omosessualità, dall’altra frequenta cinema porno, pubblica annunci erotici. Niente di indiziario se non fosse la particolare matrice del delitto e l’iperattività dell’anziano signore, dopo il ritrovamento. Due giorni dopo l’omicidio chiede espressamente all’amministratore dello stabile la disinfezione della cantina. In realtà, si era già provveduto a far ripulire il corridoio comune del piano interrato ma a Gillone non basta, vuole l’intervento di una ditta specializzata. E quando l’ottiene, si capisce perché tanta insistenza. Quando l’operaio scende la scala degli orrori si ritrova ad aspettarlo proprio Gillone. A a un certo punto, a sorpresa, l’ex sarto lo prega di igienizzare anche la sua, la numero 10. Come se non bastasse, dopo un paio di giorni, il pensionato riesce a far venire persino il parroco per una benedizione dei locali. I sospetti si rafforzano quando viene sentita la dottoressa che Gillone aveva indicato come il medico che lo ha visitato proprio quella sera. Ma lei lo smentisce: non era andata dall’anziano paziente in visita domiciliare la sera dell’omicidio né gli aveva spento l’apparecchio medico la mattina successiva. Non solo. Dal telefono intercettato del pensionato arriva la conferma che conosceva la vittima, visto che in una conversazione si fa riferimento a un ricovero di Vito Michele in un ospedale in Francia, particolare vero ma che conoscevano solo i familiari più stretti. A questo punto i carabinieri perquisiscono casa di Gillone e trovano un apparecchio per l’aerosol e l’atlante di anatomia umana con infilato un segnalibro sulla pagina dei genitali maschili con le indicazioni su come procedere per evirarli. Poi, la cantina 10. Qui il luminol evidenzia tracce del dna della vittima vicino a un tombino. Il pensionato verrà condannato a vent’anni in primo grado, ridotti a 14 in appello: solo così chi ha vissuto da fantasma avrà forse pace.

 

 

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