La cittadella dei premi Nobel


image-1235 - La città della Scienza
In corso Massimo D'Azeglio 52 c'èil palazzo degli studi anatomici, l'edificio meglio conservato tra quelli che costituivano la «Città della Scienza» del Valentino, che alla fine dell'800 fu un centro di ricerca scientifica di altissimo livello.

Sotto la guida di Giuseppe Levi l'istituto di Anatomia Umana raggiunse infatti livelli di rilievo internazionale, riuscendo a meritare finanziamenti anche della Fondazione Rockefeller e indirizzando numerosi allievi verso l'attività di ricerca.

Ben tre dei suoi studenti in seguito avrebbero meritato il Premio Nobel per la Medicina: Salvador E. Luria (1969), Rita Levi-Montalcini (1986) e Renato Dulbecco (1975).

 

Torino capitale positivista
Nel 1861 la città, perso il privilegio di essere capitale, si meritò quello di diventare polo scientifico avanzato, aprendosi per prima al pensiero positivista grazie agli insegnamenti dell'oladese Jacob Moleschott, voluto dal ministro De Sanctis per dare nuova linfa all'Università del nuovo Regno d'Italia.
Moleschott inaugurò i suoi corsi di fisiologia sperimentale con una prolusione sul Metodo nell'investigazione della vita.
Poi con la conferenza su L'uomo e le scimmie, che Filippo De Filippi tenne a Torino nel gennaio 1864, si cominciò a discutere su Darwin e sulle implicazioni della sua teoria; Michele Lessona, successore di De Filippi alla Cattedra di Zoologia, allora tradusse The Descent of Man. Nel 1881 uscí il primo fascicolo della “Rivista di Filosofia scientifica”, diretta da Enrico Morselli, che per dieci anni tentò di rinvigorire il sapere filosofico con massicce dosi di dati e temi scientifici.

image-1Il palazzo degli studi anatomici
Ospitava gli istituti, i laboratori e le aule delle facoltà di Medicina e Chirurgia, Chimica e Scienze.
La costruzione della «Città della scienza», realizzata in una zona allora periferica della città, ebbe grande importanza per lo sviluppo culturale, scientifico ed economico di tutto il paese. Il progetto, partito nella seconda metà dell'800, prevedeva la collaborazione tra Comune, Provincia e Governo per finanziare un consorzio universitario e rinnovare le strutture e le dotazioni delle facoltà scientifiche, contribuendo a riqualificare la città dopo il trasferimento della capitale.


In un decennio vennerro realizzati quattro grandi edifici, su progetto di Leopoldo Mansueti. In uno di questi, nel 1898, s'installarono gli Istituti di Anatomia Umana, Anatomia Patologica e Medicina Legale. La peculiare struttura e le decorazioni ne fecero un tempio dove celebrare il culto della scienza ed esercitarla quotidianamente. Ebbero sede lì anche tre musei scientifici, fra i quali il lombrosiano d'Antropologia Criminale. Nel 1919 Giuseppe Levi  (Trieste, 1872 – Torino, 1965) assunse la direzione dell'Istituto di Anatomia Umana, succedendo a Luigi Rolando, Carlo Giacomini e Romeo Fusari.
Durante la Resistenza, l'Istituto anatomico fu uno dei centri clandestini del Partito d'Azione, guidato da Rodolfo Amprino (1912-2007), allievo di Giuseppe Levi.


image-1Il mentore
Levi era nato nel 1872 a Trieste da una famiglia ebrea di banchieri, arrivò a Torino quarantasettenne con un notevole bagaglio di lavori effettuati nelle precedenti sedi (Firenze, Sassari, Palermo), avendo inoltre da giovane viaggiato in India ed Egitto, poi più volte verso nord — la Norvegia e le isole Svalbard — e nel 1912 compiuto una spedizione sul Caucaso.

Nella città che stava vivendo un dopoguerra inquieto con forti tensioni sociali e politiche, insediò la famiglia composta di moglie (Lidia Tanzi, sposata nel 1901) e cinque figli, tre maschi e due femmine.
Di lui abbiamo un minuzioso e gustoso ritratto scritto dalla figlia Natalia Ginzburg nel 1963.

Del Levi maestro scriveranno nelle loro autobiografie anche i tre Premi Nobel formatisi alla scuola torinese negli anni Trenta, cosicché risalta in piena luce, anche negli aspetti privati o politici, l'uomo severo e schivo che di sé volle lasciare tracce soltanto “scientifiche”.

 

 



image-1Salvador E. Luria (Salvatore Edoardo Luria)
Luria ricordava d'essersi molto impegnato da studente universitario nel laboratorio di Levi, «un'autorità di fama internazionale nel campo del tessuto nervoso e noto antifascista». Tuttavia il ventenne Luria non trovò l'istologia granché interessante, pur pubblicando l'esito di alcuni suoi esperimenti condotti su cellule muscolari e nervose in riviste italiane e tedesche. Dallo studio dei tessuti decise pertanto di passare ad una specializzazione radiologica e d'avventurarsi in seguito lungo le frontiere della biofisica e della genetica. Comunicata a Levi quell'intenzione, Luria ne ebbe come risposta un urlo, per la presunta assurdità dell'impresa cui si sarebbe dedicato. Qualcosa rimase, nondimeno, del suo apprendistato torinese: «Ciò che imparai da Levi, e di cui feci buon uso in seguito, fu un atteggiamento di rigorosa professionalità, vale a dire imparai come impostare seriamente un esperimento e portarlo a conclusione. Appresi l'importanza di comunicare i risultati: il maestro soleva dire che, non appena una serie di dati apparisse significativa, bisognava pubblicarne il resoconto. E quando il manoscritto era pronto, Levi lo riscriveva da cima a fondo senza pietà. Un'altra lezione che ho appreso da lui, applicandola poi durante tutta la mia vita accademica, è quella di non mettere mai il mio nome sulle pubblicazioni dei miei allievi, a meno di aver contribuito direttamente e sostanzialmente al loro lavoro».

image-1Renato Dulbecco
Dulbecco conferma l'immagine di un «domatore di leoni», alto ed eretto nel lungo camice grigio, i folti capelli tagliati a spazzola, gli occhi penetranti dietro le spesso lenti: «Capiva gli studenti e ne perdonava le stramberie, ma non tollerava cose che riteneva improprie: allora inveiva, sprizzando saliva a destra e a sinistra. Le sue lezioni erano le più frequentate della facoltà, non perché vi si imparasse molto. L'anatomia si imparava studiando sui libri o facendo le dissezioni sui freddi tavoli di marmo bianco o le esercitazioni di anatomia microscopica nel vasto laboratorio al pianterreno. Gli studenti andavano a sentir Levi perché lo rispettavano, lo amavano. Era inoltre un simbolo di resistenza al fascismo, anche se si conteneva entro limiti che il regime poteva tollerare».
In quelle pagine l'accento batte sull'anticonformismo politico, messo a dura prova dall'episodio del giuramento di fedeltà al regime. Levi lo prestò con profondo disagio e rammarico, ma gli studenti apprezzarono il fatto che non dovesse dimettersi.
In quel medesimo periodo, fra l'altro, il fisiologo Filippo Bottazzi propose la sua candidatura al Premio Mussolini dell'Accademia d'Italia: essendogli favorevole la commissione giudicatrice, il Duce in persona pose un veto sul nome di Levi, già firmatario del manifesto Croce, e volle che fosse designata una «vecchia camicia nera».

Al secondo anno Dulbecco fu ammesso come interno all'Istituto di Anatomia, il sancta sanctorum dove si faceva ricerca, dovendo spesso comparire davanti al professore per discutere con lui i lavori in corso: «Era una specie di giudizio universale. Non c'erano trombe d'argento, ma l'impressione era la stessa. Levi voleva sapere tutto, vedere tutto. Dopo un accurato esame pronunciava il suo verdetto, per lo più mettendo in evidenza gli errori di impostazione o di esecuzione degli esperimenti. Qualche volta, ma raramente, i risultati superavano il suo esame, e allora lui si entusiasmava, parlava ad alta voce, quasi gridando». Già al terzo anno, tuttavia, Dulbecco si spostò a Fisiologia. Aveva frattanto stretto amicizia con Rita Levi-Montalcini, anche lei interna dell'Istituto.

image-1Rita Levi Montalcini
Nella sua autobiografia il ruolo giocato da Levi acquista una rilevanza nettamente maggiore. Qui la sua figura è detta «leggendaria» per i terribili scatti di collera di fronte a studenti rumorosi e indocili, per le noiosissime lezioni (una mancanza d'oratoria aggravata dal fatto che Levi detestava l'anatomia macroscopica), per l'antifascismo non affatto dissimulato.

La selezione degli elementi descrittivi delinea un carattere che s'imponeva allo sguardo ma al tempo stesso intimidiva: «Levi era alto, di costituzione robusta, rinvigorita dalla sua passione per la montagna, sport che coltivava in estate e in inverno con la stessa tenacia con la quale indagava i problemi biologici ... i folti capelli rossi ... il modo d'incedere con la testa un po' china, la completa indifferenza per il suo vestiario, facevano pensare a un russo di professione incerta fra il mugik, il filosofo incurante del mondo assorto nei suoi pensieri e lo scrittore alla Tolstoj, piovuto per sbaglio tra noi».



image-1Le "porcherie" della Montalcini
Durante il quarto anno Rita Levi-Montalcini si vide assegnare, come ricerca, lo studio dei processi con cui si formano le circonvoluzioni nei feti umani. Compito arduo, cui s'accinse con «disperata determinazione», e che la condusse infine ad una serie di preparati istologici da Levi definiti delle «grandi porcherie». Decisamente quella ragazza — questa la sua conclusione — non era tagliata per la ricerca.
Andò meglio al secondo tentativo, quando si trattò d'indagare la formazione del collagene reticolare in tessuti connettivali, muscolari ed epiteliali. Fu durante quel lavoro che Levi-Montalcini prese definitivo possesso della coltivazione in vitro, tecnica alla quale ricorrerà vent'anni dopo per scoprire la natura del processo di crescita dei nervi.
Il rapporto fra maestro e allieva si rafforzò nell'atroce periodo successivo alle leggi razziali. Cacciato dall'Università con altri nove professori ebrei, Levi trascorse un paio d'anni all'Università di Liegi organizzandovi anche un laboratorio, ma l'occupazione tedesca del Belgio lo costrinse a rientrare in Italia.
Dall'autunno del 1941, e prima di rifugiarsi nell'Astigiano, si dedicò ai gangli nervosi degli embrioni di pollo servendosi delle attrezzature allestite da Levi-Montalcini con grande spirito d'improvvisazione nell'appartamento di famiglia.

Dopo la Liberazione gli venne restituita la sua cattedra, che tenne fino al raggiungimento dei limiti d'età, pressappoco quando Levi-Montalcini e Dulbecco partirono per gli Stati Uniti — mentre Luria vi si trovava già dal 1940: tre casi illustri di quella fuga di cervelli già allora faceva emigrare personale scientifico altamente specializzato in cerca di migliori o effettive opportunità.

Il maestro non comprende la genialità dell'allieva
Durante un incontro avvenuto più tardi a St. Louis, tappa di un soggiorno americano di Levi (fra Stati Uniti e Brasile, dove quasi ottantenne organizzò un laboratorio di biologia cellulare), l'allieva raccontò al vecchio professore quel che di straordinario aveva appena iniziato a scoprire — il NGF premiato dal Nobel nel 1986 — mostrandoglielo al microscopio: «Osservò in silenzio, pulì gli occhiali annebbiati. Guardò di nuovo, mantenendo un silenzio che non mi faceva presagire niente di buono, scuotendo la criniera leonina ... Infine la sua collera — una collera che mi riportò agli anni ormai lontani del mio internato — esplose. In così poco tempo avevo dimenticato tutto quello che avevo imparato da lui? Come non mi rendevo conto che non si trattava affatto di fibre nervose, ma di fibre di natura connettivale che per un artefatto tecnico avevano assunto un colore nero, che solo a un inesperto potevano far ritenere che si trattasse di fibre nervose? Sperava soltanto che non rendessi pubblica quella “mia scoperta” che avrebbe inevitabilmente danneggiato la mia, e per riflesso, la sua reputazione. Sapevo, per un'esperienza di più di vent'anni, quanto fosse inutile cercare di convincerlo della validità della mia interpretazione».
La Montalcini infine ricorda con grande commozione, l'ultimo loro colloquio che ebbe luogo a fine gennaio 1965 nell'ospedale dove l'ultranovantenne Levi era ricoverato per un tumore allo stomaco, morendovi due settimane dopo.

image-1Levi raccontato dalla figlia Natalia Gizburg
La fonte più ricca d'informazioni sul Levi privato è nel Lessico famigliare di sua figlia Natalia Ginzburg.
Primo tratto a risaltare è la severità (talora eccessiva o sommaria: «dava dello stupido a tutti») con cui era solito giudicare persone e cose.

Levi nutrì sempre simpatie socialiste ed ammirazione per Turati e la Kuliscioff, che ogni tanto comparivano in casa, ebbe in odio il nazionalismo e fu irriducibilmente antifascista, seppur ritenendo che contro il fascismo al potere non si potesse far nulla. Persecuzioni ed arresti si susseguirono in famiglia e nella cerchia di amici e conoscenti.
Lui stesso provò il carcere per qualche settimana nel 1933. Licenziato dai provvedimenti razziali, il 10 ottobre 1938 scrisse al rettore per ritirare le opere che in una mostra dell'autarchia avrebbero dovuto documentare l'attività dell'Istituto anatomico.
Quando riprese il suo corso nel 1945, lo dedicò al genero Leone Ginzburg, morto di torture l'anno prima a Regina Coeli. Venne anche candidato per il Fronte popolare. Nell'unico comizio della sua vita, Levi esordì proclamando la scienza «ricerca della verità», più e meglio coltivata in America che in Russia. La silenziosa perplessità del pubblico si sciolse in un applauso solo quando fu incidentalmente menzionato «l'asino di Predappio».

 

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