La triste vicenda della marchesa di Spigno
amante di Vittorio Amedeo II
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Anna Teresa Canalis di Cumiana, Contessa di San Sebastiano, Marchesa di Spigno. Una figura di primo piano del 1700, nacque a Torino nell'aprile del 1680 da Francesco Maurizio Canalis, Conte di Cumiana e dalla moglie Monica Francesca San Martino d'Agliè. Anna venne educata presso le suore del convento della Visitazione di Torino e fu introdotta nel 1695 presso la corte di Casa Savoia, lì fu nominata dama di compagnia di Maria Giovanna Battista di Savoia, madre del regnante Vittorio Amedeo II di Savoia.
Bellissima, di una sconcertante bellezza tutta seduzione e sorriso, con due grandi occhi pensosi e arguti, aveva sognato nel paterno castello una teoria di giorni fastosi e l’omaggio che il valore concede alla grazia. Quando, appena giovinetta, varcò la soglia della Corte, donzella d’onore di Madama Reale, Vittorio Amedeo II fu affascinato dalla sua bella persona ed ella seppe la gioia d'amare e di essere ardentemente amata da un Re. Il risveglio dal sogno fu triste.
Cacciata dal Palazzo, per ordine di Madama Reale, andò sposa al Conte di San Sebastiano. Il tempo passò. Vittorio Amedeo, grande guerriero e grande amatore, conobbe altri rosei legami: Madamigella di Saluzzo; la scaltra, tortuosa, traditrice Contessa di Verrua; poi la Marchesa di Priez, la Marchesa Chaumont, la Contessa della Trinità... e venne la stanchezza e degli amori e, chi sa, forse del trono.
Era il tramonto di una giornata tempestosa e luminosa.
In questo desiderio di pace, il Re Guerriero rivede un giorno l’antica amata la cui bellezza « ferma nel tempo » apparve « quasi immortale »; il Conte San Sebastiano era morto. Anna di Cumiana aveva varcato le soglie della maturità. Vittorio se ne innamorò ancora di un ardente amore. Fu nominata Dama di Corte, fu investita del Marchesato di Spigno e divenne la dilettissima sposa del Re. Ma non fu Regina.
Il consorte augusto abdicò improvvisamente dopo le nozze, forse sperando, al succedersi di ininterrotte ore di guerra, di travaglio e di vittorie, una serie di giorni pacati, sereni con la donna che il suo cuore aveva scelto.
La Marchesa di Spigno, che « aveva voluto una corona in matrimonio », all’annuncio della abdicazione vacillò. Le sue speranze cadute, i sogni di grandezza infranti, ella conobbe la disperata delusione, l’inutile angoscia del rimpianto. Questa fu senza dubbio una colpa, la sua colpa maggiore, e forse la sua unica colpa.
Quando si era ripresentata a Corte, dopo la morte del marito, di cui era stata fedelissima compagna, aveva sperato e chiesto soltanto di fare risorgere la fortuna perduta dei suoi figlioli, ma poiché il Re l’ebbe riamata, una ambizione folle la vinse.
Amare, ma da Regina. Ebbe invece di una corona un solitario castello a Chambery. Certo la donna, cui parevano dovuti i fasti di una reggia, sentì profonda la ferita all’orgoglio. Umiliata, rammaricò, rimpianse, disperò.
E una sottile trama di calunnia e di accuse si tessè ai suoi danni. Ella non fu amata nè da Carlo Emanuele III e tanto meno dalla consorte di lui, dalla Regina Polissena che le fu ostile anche e soprattutto come donna.
La Corte di Carlo la avversò. Quando Vittorio Amedeo, stanco dell’esilio, parlò di revocare I abdicazione, si volle vedere in questa sua volontà di riprendere il trono l’opera sottile, perversa e sovvertitrice della Marchesa di Spigno. Congetture perpetuate nei tempo. Prove? Nessuna in favore, nessuna in disfavore. Certo qualche documento, poche lettere almeno dovevano essere rimaste per scagionare la Marchesa dall’accusa. Nulla fu trovato e gli storici dissero la sposa di Vittorio Amedeo: « donna di ambizioso e temerario animo e di triste memoria ».
Di certo... nulla. Ma è risaputo che, quando il Re decise di abdicare, a ciò furono fieramente avversi quegli stessi ministri che più tardi gridarono il crucifige alla Marchesa, quegli stessi ministri che avevano facilmente predetto che Amedeo si sarebbe assai presto pentito di aver rinunciato al potere.
Re volitivo, magnifico di energia e di sagacia, male si sarebbe adattato alla calma di una vita solitaria.
E ciò è così vero che, per gran tempo, le redini del governo egli stesso le tenne dalla lontana Chambery e a Torino si volle quello che egli voleva e dettava dal volontario esilio sì che parve che lo Stato obbedisse a due Re.
Più tardi Carlo Emanuele, consigliato, vide il pericolo del duplice comando e a Chambery non giunse più l’atteso bollettino delle notizie e a Torino si fu ribelli al volere di Amedeo per la legge delle catastazioni e non si volle sentirlo quando si trattò della questione di Roma.
Ciò poteva inasprire l’anima del Sovrano, volontariamente decaduto, assai più che le querimonie e gli incitamenti di una povera donna che aveva, tra le altre, perduta anche l’illusione di conservare intatto il suo fascino, il suo potere sull’anima del marito.
Già colpito da un primo insulto apoplettico (oggi: un infarto) cominciava nel Re lenta e inesorabile la rovina che doveva spegnere in lui la meravigliosa luce di intelligenza e renderlo crudelmente aspro a se stesso e alla donna votata ormai all’umile ufficio di paziente, fedelissima infermiera.
Forse fu per consiglio della Marchesa che Amedeo abbandonò il soggiorno di Chambery troppo solitario e triste per lui e tornò in Piemonte sollecitato anche dal figlio Carlo Emanuele. A Moncalieri fu la rovina. Fatto prigioniero nel cuore di una notte già piena di incubi e di angoscie, Vittorio Amedeo fu rinchiuso nel Castello di Rivoli.
Alla Marchesa di Spigno, alla bellissima, ambiziosissima donna, fu riserbato oltraggio più grave. Odio di donna la volle rinchiusa nella fortezza di Ceva tra le prostitute: la Regina Polissena non conosceva pietà. E fu un lungo martirio. Restituita al suo Re dopo due mesi di dolori, ella gli tacque il soggiorno infame.
Aveva dato parola di non dire a lui dove l’avevano rinchiusa e mentì: parlò di un convento a Cuneo.
Visse i mesi così, contando i giorni dal suo dolore tremando e temendo per il consorte che nuovi assalti del male avevano reso demente.
Confortò piangendo, sorresse, amò come non aveva forse amato mai, con perduta devozione il suo Re che moriva senza più sapere... e nessuno ebbe per lei una parola di pietà.
Vittorio Amedeo II spirò due anni dopo l’arresto e la Marchesa di Spigno, per ordine di Carlo Emanuele, fu relegata nel monastero delle Salesiane di Pinerolo dove si spense più che novantenne, sola, rassegnata, dimenticata... Aveva sorriso, aveva amato, trionfato, e le speranze erano cadute e i sogni audaci e folli erano svaniti.
Aveva sofferto l’onta e il martirio, aveva veduto mancare ora per ora l’uomo che follemente l’aveva amata, aveva visto i suoi figli dispersi e il più caro, il suo Paolo, il vincitore dell’Assietta, deluso, respinto, cacciato nell’ombra da chi nson gli perdonava di essere il figlio della Marchesa di Spigno.
Se colpa vi fu nell’animo della prediletta di Vittorio Amedeo II, della Regina fallita, l’espiazione fu ben lunga e crudele.
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