La tigre di San Salvario - Torino

La “Tigre di San Salvario”

Donato Virano, 28 anni, di Montà d’Alba, fabbro è un tipaccio violento, è già stato più volte arrestato perché sospetto di ferimenti, rapine ed omicidi; nel 1864 è stato condannato per porto d’arma insidiosa e ferimento; nel 1865 e nel 1868 è stato condannato per ribellione alla forza armata. È anche stato accusato di omicidio, ma non è stato condannato grazie all’abilità dell’avvocato Buniva.
“Quella assolutoria fu una disgrazia per la società”, scrive Curzio,sulla “Rivista dei Tribunali” della “Gazzetta Piemontese” del 16 novembre 1872. Come se non bastasse il Virano è anche informatore della polizia.

La sera del 22 maggio 1871, Giovanni Drovetti, cuoco della Trattoria del baluardo esce dal locale per fare due passi e incontra due amici, Giovanni Balla e Giovanni Tamietti. Insieme si avviano verso borgo San Salvario.
Mentre fuma un sigaro, Drovetti ogni tanto sputa per strada. Lo fa anche sull’angolo delle vie Galliari e Madama Cristina, proprio mentre passa di là una comitiva di tre giovani, appena usciti da una casa di tolleranza.
Si tratta di Stefano Malabaila e Giacomo Ruffinelli ragazzi di buona famiglia che si compiacciono di frequentare tipici della malavita come Donato Virano, soprannominato la “Tigre”, ed anche il “Terrore”, di San Salvario.

Virano affronta subito il Drovetti: – «Perché avete sputato?».
– «Oh bella! Perché non volevo tener saliva inutile in bocca».
– «Avete sputato per far uno sfregio a me».
– «Io non vi conosco, non vi ho mai veduto, non so chi siate, perciò non ho motivo di fare alcun sfregio a voi».
– «Sono la Tigre, avete capito?… Sono il terrore del borgo».
– «Se sei una tigre, stopla [finiscila]: non mi lascio intimorire».
– «Stopla tì [finiscila tu]», ribatte Virano e gli vibra sulla faccia un potentissimo schiaffo.
Drovetti a sua volta reagisce e lo colpisce più volte sulla testa col bastone che aveva in mano.
Allora Virano estrae un coltello e colpisce per undici volte, con violenza, finché la lama si spezza ed una parte rimane nel corpo della vittima.
Drovetti muore mentre viene portato all’Ospedale di San Giovanni da una guardia municipale.
Nel mentre gli amici di Drovetti, Balla e Tamietti, denunciano l’accaduto alla pubblica sicurezza.
Così fanno anche Malabaila e Ruffinelli, gli accompagnatori di Virano.

Donato Virano getta nel giardino di una casa, poi torna nel bordello da cui era uscito poco prima. Lì si lava, si fascia la testa ferita poi esce ed incontra sotto i portici di San Salvario due carabinieri che lui già conosce e ai quali dice: – «Fortuna che v’incontro».
– «Fui aggredito, fui percosso, fui ferito, fui derubato dell’orologio e di quanti denari avevo in tasca».
– «Avete conosciuto i vostri aggressori?».
– «Sì, li ho conosciuti: sono i fratelli Franco, detti Gusmin».
– «Dove abitano?».
– «Nel borgo dei sagrin, in via San Secondo».
– «Cercheremo di loro, e li arresteremo».
– «Sì, arrestateli, è ormai tempo che si levino questi malfattori dalla società».

Ma la guardia di pubblica sicurezza Pellegrini, quando sente che c’è di mezzo il Virano, dice subito: – «Lo si arresti pure senza scrupolo, se si trova: egli è certamente colpevole; è il più cattivo soggetto che si trovi sotto la cappa del cielo!».
Le indagini stabiliscono che quella sera Malabaila e Ruffinelli erano insieme a Virano, così vengono arrestati.
Intanto i carabinieri vanno a cercare i fratelli Franco, che si chiamano Cosmo, Angelo, Giuseppe e Giovanni; li fanno alzare da letto e li portano tutti quattro in caserma. Ma i fratelli possono provare la loro innocenza fornendo un solido alibi.

Gli altri tre vengono portati in carcere: Virano persiste ad accusare i fratelli Franco di averlo aggredito e sostiene che Malabaila è l’uccisore di Drovetti.
Malabaila e Ruffinelli raccontano la loro versione e affermano concordi che Virano è l’uccisore di Drovetti.
I testimoni Balla e Tamietti, gli accompagnatori di Drovetti, confermano le dichiarazioni di Ruffinelli e Malabaila: così i due sono posti in libertà e Virano viene mandato davanti alla Corte d’Assise, accusato di omicidio volontario, calunnia e porto d’arma.
Al processo, nel novembre 1872, Virano nega tutto: continua ad accusare i fratelli Franco e Malabaila.
Il Presidente, barone Nasi, è costretto a rimproverarlo frequentemente per il suo contegno “schifoso”.
Viene emesso un verdetto di colpevolezza, senza circostanze attenuanti: così Virano viene condannato alla pena dei lavori forzati a vita.


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